Terzo racconto della Bassa


 


 

“Vuoi tu mi sposare?” Quale
fanciulla non ha, almeno una volta, sognato un aitante principe disposto a
starsene al suo fianco tutta la vita, anche quando i fianchi si sformano oltre
la taglia 42 (la 40 non è educativa). Si può soprassedere alla sintassi poco
mirabile.

Ma se il principe è un operaio
tornitore pachistano, che di azzurro ha solo l’inguardabile camicia sfoggiata
per l’occasione irripetibile, la fanciulla in questione vacilla nella sue
auliche aspirazioni. Appoggiata alla rete di un campo da calcio, quasi
appiattita per sottrarsi agli occhi curiosi di chi fa jogging la domenica
mattina, Monica non sa se ridere o fuggire da quel Kashi di cui sa poco più che
il nome.

Monica è un’ordinaria neo
maggiorenne della Bassa e crassa padana, che nel corso di un’intervista per il
giornalino locale, è finita nelle trame di un corso di italiano comunale per
stranieri e, senza quasi accorgersene, ci è rimasta per qualche anno, ogni
mercoledì puntuale, a compitare sillabe e paradigmi verbali nell’ardua impresa
di trasmettere l’italico idioma  ad
agricoltori indiani e casalinghe marocchine.

Kashi è uno dei tanti studenti,
non si distingue per particolare assiduità, e finora non s’è mai lanciato in
improbabili corteggiamenti. Monica ormai ha una collezione pregevole di
stranieri che decantano le sue beltà, incuranti del peso non proprio forma e
ammaliati dal ritmico dondolio della sua testa che accompagna spiegazioni di
termini.

Nell’istante in cui si  sente chiedere la mano, così, senza preamboli
e nemmeno la romantica cornice di una notte di luna iridescente, ripensa a
quando Jaswinder le ha dichiarato il suo amore folgorante, nato improvviso in
una sera di nebbia ed ennesime ripetizioni di articoli nella luce giallognola delle
scuole elementari. A quando Youssef la aspettava sotto casa con una rosa blu di
plastica, sfidando gli sfottò dei compaesani, o ancora a Malik conosciuto per
caso durante una vacanza in Spagna, pronto a lasciare tutto pur di raggiungerla
in Italia. Senza che lei mettesse in atto nessuna pratica di seduzione o
impegnasse gli occhi in accattivanti ammiccamenti: sembrava che per magnetismo
gli stranieri fossero attratti da lei. L’autostima scrollava le spalle quando
la mente, razionale disillusa, le suggeriva che un mix di solitudine, estraniamento,
e gratitudine smisurata innescavano queste cadute a catena ai suoi piedi.

Trattava questi panegirici
d’amore con automatica diplomazia, eludendo le irritanti accuse di razzismo e
inventando che è costume italiano concedersi solo dopo i venti anni o adducendo
la timidezza e l’inesperienza.

Ma una proposta di matrimonio,
ancora non l’aveva mai ricevuta. Qui si trattava di un impegno serio, perbacco:
che il colpo di fulmine di Kashi promettesse una lunga vita d’armonia ed
affetto, con la pompa magna di una cerimonia esotica con tanto di veli, drappi
e gioielli tintinnanti? Di sottecchi guardava Kashi, un bel ragazzo dopotutto,
inaspettatamente alto e slanciato, niente barba incolta da talib. Era nervoso,
palesemente nervoso,e non riusciva a guardarla negli occhi. La risposta che
vuole elaborare non arriva, non sa se buttarla sul ridere o indulgere
pazientemente, perché davvero quel ragazzo poco più grande di lei lo conosce
appena.

“non posso”, è l’unica, patetica
cosa che le riesce di dire. “sai, è un passo importante, poi i miei
genitori..:”

A quel punto Kashi alza,
finalmente, lo sguardo. Respira profondo e dichiara lui vuole sposarsi solo per
avere la cittadinanza. Cittadinanza. Un pezzo di carta d’inestimabile valore,
che fa di un Florian, di un Jesus o di una Ewa italiani col vezzo d’un cognome
come Branku, Perez-ALvarez o Malinowska. Cittadini votanti, oltre che lavoranti
e paganti tasse, cittadini come me, balena in mente a Monica. Ma nella vicina
Caravaggio, meta di pellegrinaggio domenicale quando Monica era bambina e
devota della Madonna, il sindaco ha tuonato contro queste unioni fasulle, un
paio di firme al volo e le nozze svilite d’ogni pegno d’amore eterno.
Kashi  pagherebbe, naturalmente. Capisce
il valore dell’onta di un matrimonio-lampo con uno straniero dalle dubbie
credenziali per una giovane studentessa dalle auree ambizioni. Qualche migliaio
di Euro per l’incomodo, e la solenne promessaipresentarsi agli orobici suoceri
perché ne vaglino la rettitudine morale. Kashi lavora, doppi turni di solito,
ormai il venerdì non ha tempo di andare in moschea, rivolege un pensiero
fuggevole e malinconico all’Est dove sorge il sole di ogni giorno in fonderia,
dove il calore è perenne e più infernale di quello del deserto. Forse Allah non
ha dimestichezza con la burocrazia, o forse il suo fuso orario non è allineato
con quelli delle richieste per flussi. Fatto sta che Kashi, di nuovo, s’è vista
svanire la possibilità di mettersi in regola perché per un pugno di minuti, di
secondi, altri connazionali hanno ottenuto le prime posizioni. 54 è
l’implacabile numero vicino alla sua richiesta. La precisione la millesimo
dell’orario d ricezione di tutta la documentazione è un pugno sui denti che
dissimulano un sorriso pacato, sono altri mesi di speranze spasmodiche
naufragati.

 

3 mesi, il minimo obbligato
perché l’insondabile macchina della legge si metta in moto e aggiunga un
cittadino alla sua anagrafe nazionale. se tutto va bene

Monica continuerà a studiare, a
vedere gli amici, a godersi la piena cittadinanza meritata col diritto di
sangue: i suoi avi sono italiani certificati, lei è salda sulle sue radici.

 

In quegli istanti di silenzio
teso, mentre Monica cerca di svicolare ironicamente, Kashi si gioca tutto. La
speranza di poter finalmente farsi un giro con gli amici la sera senza dover
controllare che all’orizzonte spuntino divise, di farsi medicare con l’anima in
pace quando si rompe un dito giocando a cricket, e giocarlo potendo
regolarmente prenotare il campetto al centro sportivo. Si gioca, anche, tutta
la sua dignità: si trova costretto a implorare una ragazza con cui ha scambiato
sì e no qualche parola. Kashi conficca le unghie nei palmi, deve ricacciar
indietro l’immagine di Benhazir, il suo sorriso malinconico che balugina dal
cellulare. Gliene ha parlato: un matrimonio finto, sacrificare un passo che
vorrebbe fare solo con lei, la sua Banhazir, per guadagnarsi la legittimità in
Italia.

Dove è arrivato senza troppo
volerlo, perché un pezzo d’Europa valeva l’altro alla ricerca di un lavoro
dignitoso con cui dare una mano alla famiglia. Benhazir aveva capito, adesso
doveva solo aspettare. E combattere contro i genitori, che a 24 anni la vorrebbero
accasare al più presto, timorosi delle dicerie dei vicini curiosi. Chissà se
esisteva ancora il fantomatico fidanzato partito con un visto turistico da
Karachi e la valigia piena di odi all’Europa oasi felice.

Il suo destino è lì, in bilico,
ancorato alla risposta che Monica si affanna per non rendere troppo stupida.
Chissà se intuisce la disperazione e l’umiliazione che Kashi prova, a mantenere
fermo il suo viso che trema, tacitamente chiedendo scusa per la richiesta che
fa.

 

Fermare l’invasione. Solo quelli
che vogliono lavorare. Italia cristiana. I romeni stuprano. Le carceri sono
piene di extra-comunitari. Pattugliare il Sahara. In provincia di Cremona
servono agricoltori. Gli Italiani non fanno più questi mestieri. Retate della
polizia.       L’ucraina, regolarmente risiedente, accusata
falsamente. Immigrazione clandestina è reato penale. Non sono norme razziste.
Albanese annegato nell’Adda. Mafia nigeriana in affari con la ‘ndrangheta. I
musulmani e i canti di Natale. La camicia di Gheddafi e le camicie verdi.

 

Paura, paura, allarme sicurezza,
emergenza immigrazione.

Paura.

Quella di Kashi che ciondola le
gambe al parchetto di Arcene. Davanti a lui sfila un’ordinaria serata di
mezz’estate, con le risate fra i gelati e la musica dell’oratorio, le
passeggiate dei cani e le litanie contro l’afa. Deve prendere in mano, di
nuovo, il suo destino. L’Italia è una fortezza inespugnabile, per sperare di
risiederci regolarmente deve tornare indietro. In Pakistan. Constatare che
Benhazir non ha potuto più aspettarlo, che il tempo della sua conquista di un
posto nella privilegiata cittadinanza 
europea è finito. E da lì sperare che il datore di lavoro lo faccia
entrare come categoria protetta.

Rigira fra le mani il
portafoglio, lo scrigno della sua identità inutile: quei documenti col timbro
della Repubblica dei Puri non lo descrivono più, è un fantasma fra i tanti che
abita il limbo dei non regolari. Può lavorare, accumulare soldi da spedire a
casa. E questo è quanto l’Italia può concedergli, anche perché non paga la
tasse. Solo una morte “bianca” o un’eroica impresa id probità civica potrebbero
dargli un trafiletto sul giornale, accanto all’alacrità con cui di discute di come
regolamentare l’immigrazione. Ma Kashi dal 2001 non è un cives, solo un paio di
braccia intorno al tornio e una seccatura quando insiste perché lo si metta in
regola.

ha imparato le imprecazioni di bergamaschi,
sa imitare l’accento dei colleghi pugliesi, inveisce contro le testate di
Zidane, sa che può salutare le sue amiche italiane con un bacio sulla guancia.

Adesso deve decidere se lasciare
tutto questo. Lasciare il terrore di finire in via Corelli, stretto fra mura
ancora più tangibili di quelle contro cui sbatte ogni giorno, e poi in carcere.
Tornare da sua mamma, trovare il modo di spiegarle cosa succede in Italia,
perché non regge una ventiquatt’ore in mano e qualche souvenir caratteristico. E
perché per 5 anni non potrà tentare la conquista: gli sigilleranno i bastioni
di tutta Europa. Raccontarle delle mirabilie della laboriosità lombarda e
spiegarle che, però, sono terroni quelli che controllano l’iter delle pratiche
per i permessi.

 Ancora una volta parole, tante parole. Ne ha
usate tante dal 2001, nella lingua del Paese che lo ospita senza scusarsi per
averlo relegato nell’oscurità anonima delle cantine, elargendogli sprezzante
briciole di tecnologia e pinguedine purchè sottaciute e tenute solo nella
cerchia di amici e parenti. Ne ha pronunciate per chiarire la sua situazione a
Monica, poi per chiedere a Paolo se poteva scaricargli una sintesi dei decreti
leggi sull’immigrazione da Internet dopo il “giro di vite” nei call centre, per
protestare con misura col capo all’ennesimo 
straordinario, per fare passa-parola caso mai qualcuno avesse bisogno di
un badante fittizio.

A soli 24 anni Kashi non ha più
voglia di usare parole, quelle che i politici mettono nero su bianco per
giocare a scacchi con la sua esistenza, facendo dei riquadri neri e bianchi dei
campi minati.

Chiede l’ultimo gelato davvero
italiano, come solo in Italia se ne possono fare. Sa che la Spagna ha superato in
economia l’Italia e l’ha eliminata agli Europei, ma per ora la cucina italiana
è imbattibile.

Un pizzico di basilico fresco
sull’odore di carne fatta a pezzi da programmi elettorali, accordi
internazionali, pacchetti-sicurezza.

L’odore della paura di Kashi che
attraverserà altri confini segnati sulle mappe e nelle menti di chi ci abita,
pronto a rinunciare alla dignità conferita da un timbro di vidimazione su un
pezzo di carta.

“Adei che, i ga farà cusè sempre
che a ciundulà sö panchine de nocc sti maruchì”

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