racconti della Bassa


 


Inizia qui la raccolta di racconti seri e/o faceti ambientati nello splendido fazzoletto di terra tra Bergamo, Milano, Cremona e Brescia.
Gli spunti non mancano, fatevi avanti: se siete della Bassa bergamasca o ci siete passati e avete qualcosa da scrivere, mandate il tutto a retebassa@yahoo.it


 

Comincia la fine della città 



Oltre il finestrino, la breve giornata di novembre stava finendo.


Giulia aveva visto l’alba attraverso lo stesso vetro incrostato di
scritte a pennarello nero mezze sciolte da detergenti a buon mercato,
resti degli ultimi stoici tentativi di pulizia risalenti a chissà
quanti mesi o anni prima.


Probabilmente non si trattava proprio dello stesso finestrino, e dello
stesso treno, ma la differenza era irrilevante. Erano sempre gli stessi
angoli di vetro arrotondati, oleosi e scuri come fondi di caffè
attraverso i quali sbirciava la Bassa scorrere verso Milano, Milano
scivolare a tradimento nella Bassa.


 

Era riuscita a sedersi. Strano. Per fortuna c’erano gli zingari, i negrarabialbanesirumeni dalle unghie sporche di pittura e polvere, i vecchi puzzolenti di dado vegetale che parlavano da soli. Ogni tanto anche qualche donna che allattava un neonato senza porsi troppi scrupoli sulla pubblica decenza.
Vicino a questi individui sedevano sempre viaggiatori invisibili, si sarebbe detto, a giudicare dalla cura con cui gli altri passeggeri scartavano quei posti così allettanti e rimanevano in piedi a sudare nel corridoio affollato.
Giulia non riusciva a captare quelle presenze invisibili (fantasmi dei pendolari sgozzati dalle pericolosissime mamme allattanti cinesi?), e si aggiudicava un sedile dal quale guardare oltre il finestrino.
A volte subiva il monologo di un vecchio che le chiedeva insistentemente qual era il suo segno zodiacale, a volte uno sguardo fisso sulla sua scollatura. Di solito non le accadeva proprio nulla di particolare, e poteva guardare la nebbia e i campi di mais dove ormai, in autunno inoltrato, rimanevano solo stoppie dure e irte.
Quella sera il buio era tanto fitto che poteva scorgere solo il riflesso del proprio volto stanco. Attraverso la nebbia si coglievano solo impercettibili variazioni della tonalità di grigio scuro dominante: riflessi azzurro-acciaio, stazione di Segrate; giallo smorto, l’insegna della paninoteca-sala da tè Xiaopanghua di Pioltello; qualcosa di rosso, forse Vignate.
L a giornata era stata breve, ma non per questo meno insopportabile. Giulia tornava dall’università, e la aspettava una serata di lavoro.
La ricerca, il desiderio insopprimibile dell’uomo di capire e tante altre cazzate: una giornata a litigare perché le provette di plastica usa e getta del laboratorio numero 39 al quinto piano dell’ospedale San  Paolo erano finite. Niente soldi per ricomprarle. Arrangiati e riciclale.
Costano meno di un euro l’una cristo meno di un euro vaffanculo costano meno di un millesimo della cassa di vini pregiati che noi altri stronzi leccaculo ti abbiamo regalato per Natale a te e all’esimia tua moglie del comitato di bioetica fottetevi fottetevi fottetevi.
Una settimana di lavoro da buttare, perché i dati ottenuti con le provette sporche erano inutilizzabili. Ovviamente.
Mentre usciva dall’ospedale qualcuno le aveva infilato in mano un opuscolo di patinatissima carta biancoazzurra, ornati da lettere blu. Le lettere componevano l’ultimo discorso del Papa. Aveva dato un’occhiata veloce: “…Di fronte ad una ragione a-storica che cerca di autocostruirsi soltanto in una razionalità a-storica, la sapienza dell’umanità come tale…”
Le era venuta una gran voglia di fare l’amore con il suo ragazzo. Invece la aspettava il call-center.
Ripensava a questo in treno, e non voleva più scendere. La nebbia, gli scossoni la facevano sentire bene. La nebbia rendeva vaghi i pensieri, e lei preferiva così.
Non voleva pensare lucidamente alle città invisibili che si scioglievano nell’acido metropolitano, tra gente che camminava torcendosi le mani ed imprecava ai bambini che piangevano. Nemmeno all’oratorio del suo paese di quattromila abitanti, del quale un tempo riusciva a dire solo “me ne andrò”, ai pomeriggi passati sui sentieri tra due campi di mais, quando è agosto e le piante sono così alte che alla loro ombra il mezzogiorno estivo diventa oscuro. Un’oscurità verde, l’unica giungla che avesse mai conosciuto davvero.
Sostituita quasi all’improvviso da villette di un rosso allucinogeno.

Poi, vediamo, non voleva pensare alla serata che la aspettava, alla casa che ancora non aveva…
Prese un giornale sgualcito che penzolava dal sedile di fronte. Il probabile studente fuoricorso del Politecnico che l’aveva messo lì dormiva sbavando con le cuffie alle orecchie.
Aprì il giornale e trovò, stranamente, una notizia che riguardava la zona dove abitava:

“Belva in libertà. Non c’è stato il vertice in prefettura, la gente ha paura e chiede battute più serrate. Nuovi avvistamenti.

Pantera, si continua ad attendere – Fiducia nelle gabbie trappola

di Pietro Tosca.  L’ inizio settimana che doveva essere della svolta, almeno sul fronte della strategia di caccia, è diventato invece il lunedì dello studio e del timore. E’ slittato il vertice in prefettura, sul paventato arrivo dello specialista delle fucilate al narcotico si deciderà nei prossimi giorni. La pantera è sempre imprendibile, ma il sistema di cattura scelto resta quello passivo. Fiducia nelle gabbie nonostante la mancanza assoluta di risultati registrata fino ad ora. Il prefetto e le forze di polizia continuano a sperare nel trappolone in ferro con l’esca di carne: «Almeno per qualche giorno, ma la nostra pazienza ha un limite» – annuncia il capo di gabinetto Cristina Gritti.
Intanto, a venti giorni dal primo avvistamento e dalla prima segnalazione, il felino continua a muoversi nella campagna, a nascondersi nei campi di granoturco, a lasciare tracce e a far paura. Catturarlo non è semplice ma gli agricoltori con casa e campi nel triangolo della belva- quello tra Caravaggio, Treviglio e Brignano – pretenderebbero si facesse qualcosa di più.
 Loro, ma non solo loro: la pista ciclabile che collega Caravaggio a Treviglio sembra diventata una striscia di asfalto da evitare accuratamente. Non mancano nuovi avvistamenti. Molto più numerosi, secondo indiscrezioni attendibili, di quelli resi noti negli ultimi giorni dalle istituzioni, giustamente attente a mantenere il riserbo evitando clamori per scongiurare allarmismo e processione di curiosi. Esperto e polizia provinciale hanno effettuato i sopralluoghi nelle zone indicate e hanno trovato impronte inequivocabili.
Insomma tutti, in un modo o nell’altro, chiedono di intensificare le ricerche. E se la battuta di caccia è improponibile per il dispiegamento di forze che richiederebbe, trovare soluzioni in alternativa, o in aggiunta, alle gabbie appare quasi una necessità. Anche per arrivare alla pantera prima che qualcuno imbracci il fucile.
Senza narcotico.”

Ma quante minchiate, pensò Giulia, e lasciò cadere il giornale. Appoggiò la testa al finestrino e chiuse gli occhi. Non riusciva a dormire, però: forse perché si aspettava che da un momento all’altro il treno si fermasse con un brusco scossone alla stazione di Treviglio. Forse perché continuava a sentire li passo felpato di una pantera, un’ombra nera tra i campi di mais ormai secchi e deserti.
Figuriamoci, la polizia provinciale a caccia di impronte. Probabile che in realtà si trattasse di un alano da guardia fuggito da qualche capannone. O della gratacornia del mombèl, perché no.
Le tornò in mente il lungo titolo di un racconto breve, Piccola storia tendente ad illustrare quanto precaria sia la stabilità all’interno della quale crediamo di vivere, ovvero che le leggi potrebbero cedere terreno alle eccezioni, al caso o alle improbabilità, e qui ti voglio.
Provò un odio improvviso e assurdo verso tutta quella gente che si affannava con trappole e fucili, nonché per quelli che avevano fiducia nelle gabbie. Si spaventò un poco di questo sentimento, perché l’aveva fatta uscire dallo stato di indifferenza totale in cui cercava sempre di sprofondare prima di una serata di lavoro.

Asmaa aveva finito di lavare le scale. Aveva lavorato senza fermarsi per tutto il giorno, partendo in bicicletta all’alba verso la prima delle tre ditte che la cooperativa le aveva assegnato per quella settimana. Presa dal desiderio di fare bella figura, aveva sfregato pavimenti, lucidato bagni, consumato vetri come un’indemoniata. Ora aveva proprio finito, e si rendeva conto che né gli impiegati annoiati che erano tornati a casa prima di lei, né Awa, la sua collega senegalese, le avrebbero fatto i complimenti per il suo lavoro.
Asmaa non aveva più nulla da fare alla Filplast, ma non osava uscire in anticipo. Era il suo primo giorno di lavoro, non voleva fare nulla che apparisse sbagliato. Quando aveva finalmente posato lo straccio, però, si era sentita di colpo stanca. E fuori luogo. Come se tutti le rinfacciassero la stupida gratitudine che provava per aver trovato un lavoro come quello. Iniziò a sfregare per l’ennesima volta i gradini già lustri, perchè le sembrava di essere strana ed appariscente, così ferma ad aspettare sulle scale.
Lei voleva tutto, tranne che essere considerata strana.
Ci pensavano già gli altri marocchini di Arcene, a ritenerla un’originale. Una che aveva snobbato i compaesani per finire a vivere con due pakistani, a lavorare nel loro negozio fino a tarda sera, dopo aver finito con le pulizie. Una così doveva avere qualcosa da nascondere.
Del resto, la pensava allo stesso modo anche suo padre. Non aveva mai capito perché quella sua figlia tanto intelligente aveva deciso di lasciare il lavoro in un’agenzia di viaggi, ottenuto in fretta  dopo la laurea in lingue all’università di Casablanca, e di partire per la Germania.
Nessuno l’aveva mai veramente capito. Nessuno immaginava che stesse inseguendo un ragazzo.
L’aveva scritto sul suo diario, in tedesco, un po’ per non dimenticare la lingua e un po’ per timore che i suoi coinquilini pakistani riuscissero a leggere qualche parola di arabo, grazie allo studio del Corano. Aveva scritto di Malak, conosciuto nei vicoli attorno all’università prima che lui emigrasse.
Aveva descritto il suo viso non bello, il suo sorriso e la sua pelle secca e scura come la corteccia di un grande albero.
Malak era senegalese. Un negro, per il padre di Asmaa e per molti suoi compaesani. Aveva detto che voleva sposarla, e lei era partita. Non se ne era pentita, non l’avrebbe fatto mai. Scaduto il visto turistico per la Germania, però, si era ritrovata clandestina, e la vita era diventata impossibile.
La mattina i poliziotti facevano cordone davanti alla stazione della metropolitana. Controllavano i documenti a chiunque avesse una sfumatura meno che ariana, era impossibile passare.
La sera rastrellavano i palazzi abitati da turchi, greci e italiani; Amsaa rimaneva sveglia per il terrore di sentire i loro passi sulla scala di legno.
Aveva iniziato a parlare sottovoce, a non guardare nessuno negli occhi. Era diventata un fantasma.
Quando le dissero che in Italia ci sarebbe stata una sanatoria, decise di partire di nuovo. Una volta risolta la stupida faccenda burocratica della regolarizzazione, la vita sarebbe tornata normale e loro sarebbero stati ragionevolmente al sicuro. Malak l’avrebbe raggiunta in seguito.
Ora viveva ad Arcene da sei mesi, la sanatoria era ancora un’ipotesi vaga, e Asmar era tornata ad essere un fantasma che sfuggiva lo sguardo di tutti e lavorava in nero da mattina a sera.
– Allora bella, andiamo? Awa era stanca di aspettarla, voleva tornare a casa. Asmar le fece un cenno di assenso, e si tolse il grembiule. Scesero le scale insieme, uscirono dall’edificio prefabbricato, e mentre Asmar stava salendo sulla bicicletta Awa le disse:
– Stai attenta su quella strada, dicono che gira un animale pericoloso. Una pantera, sai, un fahd.
La ragazza marocchina annuì e si avviò lungo la statale. Su certe cose aveva ragione mio padre, quanto sono creduloni questi negri. Un fahd, certo, come no, in questo posto di fabbriche asfalto e campi bruciati dal freddo dove vivono bene solo i cani. Più probabile incontrare un angelo del Signore. Un malak…
La sera era avvolta dalla nebbia, non si riuscivano a scorgere i capannoni e le cascine abbandonate che di solito costituivano i suoi punti di riferimento. Asmaa pedalava veloce, intimorita dal silenzio, e intanto pensava agli animali feroci e ai mostri della sua infanzia: i nesnas, che hanno solamente mezzo corpo e mezzo cuore, il roc con cui aveva volato Sinbad, i simurg, i karkadàn. Sua madre era solita concludere i suoi racconti dicendo che il bestiario dei sogni è più povero di quello di Dio.
Così pareva che i mostri fossero necessari all’immaginazione degli uomini, e in queste terre bagnate dalla nebbia prendevano la forma di una pantera. Qualcosa di tanto improbabile che, pensandoci, Asmaa sorrideva e dimenticava il secondo lavoro che ancora la attendeva.

Giulia salì in macchina e si avviò fuori dal parcheggio della stazione. Appena oltrepassato il semaforo che da Treviglio regolava l’accesso alla statale, la nebbia impediva di vedere qualsiasi cosa. Era impossibile immaginare case, capannoni, campi dietro quel fitto involucro, che si apriva  solo per mostrare segni sfuggenti di luce davanti ai fari dell’auto. La ragnatela di costruzioni umane non si mostrava si lasciava solo intuire come nelle linee di una mano.
Una belva potrebbe rendersi invisibile in quella nebbia meglio che in una foresta. Giulia adesso rideva, dimenticando la stanchezza. Che cosa potrebbe mangiare? Gli scarti dei caseifici? No, morirebbe intossicata all’istante. Qualche cacciatore?Magari. Qualche leghista in giro a far ronde, ancora meglio. Forse questo schifo di posto ha ancora qualche sorpresa da offrire.
Il pensiero era faticoso da reggere. Uscire dall’unica via diritta che si riusciva ad intuire nella nebbia, balzare di lato, nascondersi e poi riapparire, balzare, mordere, fuggire, tornare all’attacco…
Che cazzo mi viene in mente stasera? Si vede che sono stata troppo a contare cellule.
Però, speriamo che ci sia. Che ci sia una pantera qui in giro. Che non la prendano.
Ormai dovevano mancare solo un paio di chilometri alla via laterale che avrebbe dovuto imboccare per tornare a casa. Sempre che non si fosse sbagliata, per la nebbia maledetta e i pensieri che le attraversavano la testa. Non si sentiva più stanca, ma piuttosto tesa, come se si stesse preparando per uno sforzo notevole.
Com’è che era finita così, a desiderare lo stordimento della stanchezza, a vivere in tempo schiacciato, informe, senza speranza di rottura? Vivere per evitare il peggio. Solo che il peggio era già lì, intorno, sopra sotto e dentro lei. Ne era diventata una parte fondamentale, per non vederlo più.
E ora lo vedo di nuovo. Quanta fatica vederlo ogni giorno, cercare i frammenti di realtà che non ne fanno parte, riconoscerli, conservarli, dargli forza. Dovrò allontanarli dalle trappole edai fucili, dai prefetti, dai giornalisti…Dovrò colpire con eleganza. Con molta eleganza.
Il mio slancio ogni ostacolo abbatte.
Ormai era arrivato il momento di svoltare, vedeva una forma biancastra che doveva essere il cartello stradale segnalante la direzione per il centro del paese.
Ma lasciò che l’auto proseguisse sulla statale. Non aveva voglia di andare subito a casa. Si passò la mano sulla nuca e stirò pigramente la schiena, mentre continuava a fissare la nebbia.
Poi vide un riflesso improvviso, una forma indistinta, un  movimento al lato della strada (…è lei…), cercò di sterzare ma sentì che aveva colpito (…la pantera…) qualcosa di solido.
Non si trattava di un fantasma, di una fantasia.

La bicicletta di Asmaa non aveva fanali. Gliel’aveva prestata il suo ospite pakistano, che ormai era passato al motorino; non poteva certo lamentarsi o avanzare ulteriori pretese.
Quando sentì il motore dell’auto che si avvicinava, le sembrò il ringhio sommesso di un animale.

Giulia vide la ragazza a terra, sull’asfalto bagnato. La testa era girata in una posizione strana, innaturale. La bicicletta era finita in un campo, nascosta dalle nebbia. Si sentiva solo il rumore dio una ruota che continuava a girare.
Appena riuscì a riprendere fiato, Giulia chiamò l’ambulanza, sapendo che sarebbe stato inutile, poi si sedette per terra, vicino ad Asmaa. Intorno rimanevano quelle false città senza mura che la nebbia sapeva costruire, quegli animali senza ossa, costruiti solo da reti di rapporti intricati che cercavano una forma.

 

Questo racconto è per Asmaa Bougattya.

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