La fiducia – racconto della bassa

 
“Negri maledetti”, pensò Francesco asciugandosi il sudore che gli colava lungo le sopracciglia, sotto la zanzariera imbevuta di DDT. “Se ne vanno in giro tranquilli e beati, sembra che perfino le zanzare abbiano schifo della loro puzza”.
Il ragazzo osservò con calma i due giovani senegalesi, attraverso il mirino del il fucile di precisione. Si scambiavano una stretta di mano davanti all’entrata di un palazzone dalla facciata decrepita, sorridevano. Francesco odiava quei denti troppo bianchi. Trattenne il respiro. Il cuore batteva piano, nonostante la tensione, aiutato dai farmaci che l’Armata del Nord gli passava ogni mese per conservare salde le sue mani e ferma la sua mira micidiale.
Lasciò partire il colpo. Uno dei due senegalesi si lasciò cadere a terra, l’altro iniziò ad urlare.
Francesco si sedette sul pavimento e appoggiò il fucile alla parete di fianco a sé. Non ne poteva più di stare a Zingonia. Quando si era arruolato nella Divisione Terra Insubre, a Busto Arsizio, non immaginava che lo avrebbero mandato così lontano da casa, sul fronte bergamasco. Lì era pieno di negri. Alcuni stavano organizzando una sorta di resistenza all’assedio, aiutati dai traditori che non avevano voluto unirsi all’Armata del Nord.
I sozzi abitanti di Zingonia sembravano immuni alla malattia che stava devastando la pianura più vasta dell’ex Repubblica Italiana. I meticci proliferavano, brulicavano in ogni angolo di quel posto fetido come scarafaggi, mentre i cittadini di pura razza padana morivano in preda alla febbre. All’inizio nessuno riusciva a spiegare cosa stesse accadendo. Le estati sempre più calde, gli inverni sempre più miti preoccupavano qualche catastrofista, ma le prime morti erano passate quasi inosservate, anche perché molte erano avvenute negli ospedali sotterranei per non-cittadini. I telegiornali trasmettevano quotidianamente ore e ore di servizi sul revival del gelato e sugli incidenti autostradali causati dai drogati.
Poi, quando i casi iniziarono a farsi troppo numerosi per essere nascosti alla popolazione, si iniziò a parlare di un misterioso contagio proveniente dall’Africa, o forse dall’Asia. Qualcuno notò che gli stranieri di origine africana venivano in gran parte risparmiati dallo strano male.  Sobborghi abitati da stranieri vennero dati alle fiamme, la scuole miste vennero chiuse. Si costituì l’Armata del Nord, che prese possesso di ampie zone del paese proclamando una miriade di repubbliche indipendenti con l’intenzione di bonificarle dagli untori.
Un’équipe di infettivologi milanesi comprò di tasca propria una pagina sul principale quotidiano ex-nazionale, spiegando che il misterioso contagio era semplicemente malaria, portata da zanzare anopheles attratte dal clima divenuto tropicale. La maggioranza delle persone di origine africana erano portatrici di una mutazione genetica che le rendeva parzialmente resistenti alla malattia. Invece di organizzare pogrom, suggerivano gli scienziati, si sarebbe dovuto provvedere a comprare scorte di zanzariere, insetticidi e farmaci antimalarici.
Il giorno successivo, l’ospedale milanese in cui lavorava l’équipe di infettivologi venne colpito da svariati proiettili di mortaio.
L’Armata del Nord fece incetta di zanzariere e DDT per distribuirli ai propri miliziani. La guerriglia si diffuse come un incendio tra le sterpaglie.
Francesco era apprendista idraulico da due anni, all’epoca dell’epidemia. Il video di propaganda “sono incazzato” lo convinse all’istante: lui era davvero incazzato, a volte avrebbe voluto spaccare il cranio del suo capo con un tubo. Invece avrebbe spaccato il cranio dei negri con un fucile , perché l’Armata del Nord gli aveva aperto gli occhi.
“Bravo, tè sì che hai i coglioni”, gli aveva detto il capo. “L’avrei fatto anch’io, alla tua età!”. Era il primo complimento che gli faceva in due anni. Francesco capì di essere sulla strada giusta.
La sua capacità di svuotare totalmente la testa da ogni pensiero lo aveva reso degno di nota tra i suoi commilitoni. Un cecchino formidabile, dalla concentrazione inflessibile. Venne spedito sul fronte più duro, dove servivano uomini come lui.
Zingonia.
Stava ormai da una settimana in quel negozio di kebab semidistrutto, con lo sguardo perennemente rivolto ai palazzi Anna. I négher maledetti avevano minato la kebabberia, prima di andarsene. Il soldato che era con lui era morto così, saltato per aria mentre si avvicinava allo spiedo della carne. Era curioso, non aveva mai assaggiato un kebab. Voleva controllare se faceva davvero schifo come dicevano tutti.
Aveva finito le scorte di cibo e i rinforzi ancora non si vedevano. La squadra di soccorso doveva avere incontrato resistenza, poteva sentire le raffiche di mitragliatrice poco distanti. Il caldo lo torturava, come pure il ronzio incessante delle zanzare che cercavano di aprirsi un varco attraverso la rete che lo copriva per intero. Aveva bisogno di fare qualcosa, di spaccare un’altra testa, di alzarsi ed uscire da quel buco, altrimenti sarebbe impazzito, lo sentiva.
“Aiuto!” sentì gridare da fuori. Una voce femminile, acuta, dall’inconfondibile accento bergamasco. Francesco prese il fucile, ed uscì.
Tra le rovine del negozio di tappeti persiani, una ragazza bionda lottava contro un bruto dalla pelle olivastra. Il négher stringeva in mano un coltello da caccia, e cercava di puntarla addosso alla giovane, che gli tratteneva il braccio con entrambe le mani.
Nella mente di Francesco passarono in fretta le immagini del video “Ho paura”, in cui pure e bionde ragazze padane si appellavano ai loro difensori affinché le liberassero dalla minaccia costante della violenza straniera.
Francesco non esitò: prese la mira, puntando il fucile alla testa dello scuro scimmione. Le sue mani erano ferme, nessun pensiero lo turbava. Fece fuoco.
L’uomo armato di cotello cadde all’istante.
La ragazza bionda si girò verso di lui, sorridente. Francesco ricambiò il sorriso.
“Non dovresti fidarti troppo dei tuoi simili”, disse la ragazza. Poi estrasse dalla borsa una pistola, e sparò nel cuore al soldato.
Mentre agonizzava, Francesco fece appena in tempo a notare il piccolo stemma dei Patrioti Padani che l’uomo olivastro, Cristiano Esposito, della Divisione Terroni Rinnegati, membro della squadra di soccorso dell’Armata del Nord, portava sul bavero della giacca.
La ragazza si sistemò la zanzariera sui capelli biondi e si avviò verso la base dei resistenti. Avrebbe chiesto il permesso di farsi una doccia, anche se non era il suo turno. Dopotutto, se l’era meritata.
 
 
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