Nuovo racconto: Aveva ucciso un coniglio

 

Per la serie racconti senza pretese, racconti della Bassa:

Aveva ucciso un coniglio  

Aveva
ucciso un coniglio.

Ma porca…

Il
parco del WWF ricavato dall’ex cava ed ex discarica era diventa
to un’immonda
conigliera dove roditori di ogni specie si rifugiavano per salvarsi dal
progresso: capannoni di aziende addette al recupero rottami ferrosi invece dei
campi di patate. Erano roditori tradizionalisti.

E
suicidi: amavano attraversare la statale gettandosi sotto le auto in corsa,
ebbri per la luce dei fari, e trovare la gloria diventando sottilette di carne
aderenti all’asfalto.

Davide
imprecò pensando che avrebbe dovuto pulire il parabrezza dal sangue nel garage
dei suoi, cercando di non svegliare la madre insonne e poco discreta. 

In più
la serata era andata male, c’era troppo traffico in giro e non era riuscito a
scattare nessuna fotografia. Nonostante fosse da un pezzo passata l’una, la
statale Federica (sì, nella Bassa poteva capitare che le strade avessero nomi
di donna) era affollata come nell’ora di punta, quando i laboriosi abitanti
della zona si spostavano in massa verso la città. La notte si creavano code, le
auto frenavano bruscamente sfiorando di continuo l’incidente, si aggiravano
come squali affamati.

I
conducenti di solito erano uomini soli, ma non mancavano le allegre compagnie
di amici: neopatentati o sessantenni, tutti con l’identica espressione ilare e
vagamente furtiva: sembravano divertirsi parecchio, mentre si indicavano a
vicenda le nigeriane che stingevano i loro ombrellini colorati, o le ragazze
più giovani che segnalavano la loro età mostrando grandi peluche colorati.

Le
donne della Federica, invece, avevano espressioni molto diverse tra loro.
Alcune facevano sorrisi ai conducenti delle auto.

Altre
ricordavano a Davide il coniglio che aveva appena ucciso, intravisto alla luce
dei fari.

Ad ogni
modo, quella sera era un venerdì e c’era decisamente troppa gente in giro.
Meglio rassegnarsi e tornare a casa a lavare la macchina. Avrebbe dovuto
ricordarsi di riservare le sue uscite ai giorni infrasettimanali, o alla
domenica.

Guidò
fino a casa, aprì il cancello facendo molta attenzione a non causare cigolii.
Non voleva che la vecchia stronza gli facesse storie la mattina dopo.
Parcheggiò l’auto in garage e la esaminò alla luce fioca della lampadina
impolverata che pendeva dal soffitto.

Per
fortuna la carrozzeria della Mini non aveva subito danni. Solo un po’ di sangue
sul paraurti. Lo pulì con uno straccio bagnato, poi uscì dal garage, entro
furtivamente in casa e si preparò a dormire il sonno dei giusti.

Davide
avrebbe desiderato un risveglio impercettibile, un mutamento infinitesimale
nell’oscurità della stanza, una carezza appena immaginata sulle sopracciglia.
Un annuncio del sole ancora lontano, che gli avrebbe concesso di seguire ancora
a letto l’avvicinarsi del nuovo giorno.

Invece,
puntuale, arrivava lo sdeng.

Ma dio…

Un
muratore nel cantiere vicino a casa sua perdeva il controllo di un tubo (quanto
era grande quel coso?) pendente dalla gru, il quale si schiantava contro chissà
quale armatura metallica. Risultato: un colpo di martello sui timpani. Fine dei
sogni eroici ed erotici di Davide. Lo avrebbe ammazzato, quel muratore
incapace, chissà se marocchino macedone o terrone, o altro. Barcollando si
sollevò dal letto e attraversò il corridoio ancora buio. Arrivò in cucina e si
versò una tazza di cereali 40% fibre, senza aggiungere latte.

Gli
andava bene alzarsi ogni mattina alle sei per mostrare al rag. Armando che
aveva un bravo figlio, che tutto andava come previsto e poteva andare al lavoro
sapendo che Davide si sarebbe vestito, avrebbe preso la Mini – ricevuta in regalo per
la maturità sudata dalle suore Ventricine (quanto gli aveva rinfacciato quel
regalo, il ragioniere!) – e sarebbe andato alla lezione di marketing I. Andava
bene ingurgitare quel pastone accontentando la madre preoccupata per il
benessere del suo intestino; però la tazzona di latte mattutina, a ventidue
anni, no.

Per
fortuna era figlio unico di un’onesta coppia di assicuratori entrambi
attivamente impegnati nel sostenere le entrate del bilancio famigliare. Questo
significava casa vuota fino al primo pomeriggio.

Attese
l’uscita dei genitori, si gettò sul divano e si tolse le inutili scarpe. Trovò
il telecomando finito tra due cuscini e accese la tv. Teneva gli occhi chiusi.

 

Allora, come lo ha saputo?” chiese
Michele Cucuzza.

Forse quando sono tornata a casa e ho visto
che c’era quel motorino bruciato, tutto sciolto e mischiato con l’asfalto, e
c’era la gente che guardava perché era proprio davanti alle scuole medie e ho
capito che era quello di mio figlio più piccolo…
” rispose una donna.

Che
sonno. Maledetto sdeng.

“Sono
andata in camera di mio figlio e ho guardato dappertutto ma non ho trovato
niente, solo i fumetti e i cd e quelle cose lì, ma non erano quelli
satanisti.  Poi nel cassetto dei vestiti
che non gli andavano più bene ho visto il cestino dell’asilo, che l’avevo già
buttato via e allora come mai era lì, e dentro c’era quella cosa bianca, l’ho
capito che era la droga”.

La
donna cominciò a piangere e a parlare in modo più confuso. Anche a quell’ora
del mattino, cheppalle.

“E
allora lei cosa ha provato"?  chiese
di nuovo Cocuzza.

“In che
senso?…”

Davide
pensò a scenate di sua madre isterica, al ragioniere che strepitante, alla Mini
avvolta dalle fiamme.

Cambiò
canale. Pensò che bisogna essere degli sfigati per finire così.

 

 

“Devo
essere proprio sfigato. Come ho fatto a finire così?” stava pensando William.
Bevve un altro sorso del tè freddo alla menta con aggiunta di rum che gli aveva
passato Nicoleta, e si appoggiò alla pompa del gasolio. Nonostante la
mezzanotte fosse passata da tempo, l’afa non accennava a diminuire e il
completino in lattice nero che indossava lo stava facendo sudare copiosamente.

Come
era cominciata quella storia? William non sapeva fischiare. "L’uomo che nasce uomo deve far sentire
il fischio, e chi non fischia non e’ uomo", così andava ripetendogli suo
padre. Lui purtroppo non fischiava e non gli interessava fingere di farlo.

Aveva
dieci anni e già invitava al peccato, occhi neri a mandorla che sembravano
velati d’acqua, occhi per tentare uomini fischianti, di quelli con gli
attributi.

I
bambini stavano insieme tutto il giorno, rubavano la frutta, guardavano i più
grandi tirare calci ad un pallone. Il fratello di William, Jorge, spesso lo
lasciava solo per andare a farsi un giro al magazzino abbandonato del porto. Lì
i più grandi progettavano la giornata, ma non volevano pesi inutili tra i
piedi, e Jesuino era un bravo studente, ma un pessimo palo. Troppo nervoso,
lanciava allarmi per nulla.

Jorge
però non era un cattivo fratello, e avrebbe picchiato il quattordicenne
Henrique se avesse saputo quello che sognava tutte le notti. Le ragazze
passavano sulla spiaggia, sole o in gruppo, si dirigevano al lavoro o al
mercato, spesso si fermavano per scherzare con chi aveva già il coraggio di
fissarle sfacciatamente. Ma Henrique aveva occhi solo per William. Una volta
picchiò un mulatto chiaro perché aveva tentato di toccare le cosce al suo
protetto, poi iniziò a macinare pensieri su questa audacia. Una sera, mentre
pisciavano al buio sulla spiaggia, sentì oscuramente che doveva essere
piacevole, e pisciò sulle cosce di William. Poi disse:

Adesso sei la mia donna. Mi devi ubbidire”.

E così
la storia incominciò. William avrebbe preferito raccontare che era successo in
una notte di luna, sulle panchine del parco, con fiori e orchestrine e cose
romantiche sussurrate all’orecchio. Ma non era successo, dunque era stupido
mentire.

Bè, meglio qui che in quella gabbia schifosa
di Milano
”, pensò. Non sperava più di uscire dal cpt, e invece ce l’aveva
fatta.

Portato
via dallo stradone dietro il cimitero di Cazzano Rosa, a sirene spiegate, una
sera che il nuovo comandante della locale aveva deciso di farsi un po’ di
pubblicità.
Se già
per strada la sua vita non era facile, in gabbia era diventata quasi
impossibile. Lì dentro era impossibile per chiunque fosse non disposto a
ingoiarsi quel poco di dignità che gli era rimasta. Un prezzo caro per la
sopravvivenza.

Stava
in una sezione speciale. Nei carceri sarebbe stata
quella degli infami, degli
stupratori. Nel cpt era prevalentemente la sezione dei trans.

Gli agenti erano passavano di lì per scacciare un po’ la
noia, soprattutto durante i turni di notte. Mentre William dormiva lo
svegliavano di colpo: "Oh, puttana!
Che fai dormi? Svegliati e fammi una pompa
", oppure "Fammi toccare una tetta, magari così ti
porto da mangiare
".

Una
notte aveva risposto male, e gliel’avevano fatta pagare.

Se
qualche cliente in vena di tenerezze gli avesse carezzato la fronte, appena
sopra l’attaccatura dei capelli, avrebbe sentito la cresta che la manganellata
più violenta aveva scolpito sull’osso del cranio. Era svenuta all’istante, e al
risveglio aveva deciso di assecondare ogni richiesta delle guardie.


dentro pensava con nostalgia al marciapiede.
Aveva almeno un margine di scelta nella prostituzione. Nel
cpt quel margine non esisteva, si toccava il fondo e lì si rimaneva.

Proprio quando aveva smesso di sperare, qualcosa si era
mosso.

Le sbarre non si erano aperte solo per lui. Il comandante
della locale aveva avuto il suo articolo sul gazzettino, non c’era più motivo
che i fermati restassero dentro. Jari l’albanese aveva pensato bene di fare un
po’ di campagna acquisti per i Di Giovine, e nessuno aveva fatto storie.

Cu è
orbu surdu e taci, campa cent’anni in paci,
il questore lo sapeva bene.

William era salito sulla Mercedes di Jari e ora era
lì, a sudare fermo accanto alla pompa del diesel, Quartiere Zingone.
Aspettando.

 

 

Davide addentò una pizzetta fredda. Gusto nylon. Da
un paio di mesi aveva rinunciato all’aperitivo per starsene sul divano di casa.

Lo snack-bar “Oignon”, il disco-pub “la Locanda del vecchio
trebbiatore”, le enoteche-yogurterie del Borgo vecchio non lo attiravano più.
Si era decisamente rotto.

Voleva passare al livello successivo.

Fine settimana in Costa Azzurra. Serate al
Macadamia, dove un separé per due costava duecento euro. Bamba quanto basta.
Senza bisogno di chiedere ai quei pidocchi dei suoi genitori, e soprattutto
senza passare le serate a passare la spugna sul bancone del fetido bar dei
cinesi, o scaricare bancali in compagnia di marocchini e rumeni.

Molti, in paese, si arrangiavano facendo girare
qualche pallina di coca. Ma a Davide non andava di inserirsi nel giro, per
giunta già saturo. Preferiva le iniziative solitarie.

La statale Federica passava a pochi metri dalla
villetta dei suoi, con l’ animatissimo mercato serale.

Da quando era bambino vedeva liberi professionisti
brizzolati rallentare, accostarsi, contrattare con le prostitute. Alcuni
portavano sul portabagagli adesivi raffiguranti paffute facce di neonati
circondati da un triangolo rosso, sopra la scritta “bimbo a bordo”.

Probabilmente avevano soldi da buttare, e
sicuramente a casa li aspettavano mogli che non avrebbero gradito la verità
sulle loro uscite serali.

Davide aveva una macchina fotografica Polaroid,
molte serate libere e un’auto veloce. L’idea gli era sorta spontanea dopo pochi
giorni di meditazione casalinga.

Seguiva i rispettabili padri di famiglia sulle
berline targate Bergamo. Scartava le compagnie di sbarbati vocianti che festeggiavano
il diciottesimo insultando le ragazze nigeriane impassibili, i casi umani che
percorrevano la statale in motorino, le vetture provenienti da fuori provincia.
Preferiva i clienti dei trans, numerosissimi nel Quartiere Zingone.

Scattava qualche fotografia, poi li seguiva fino a
casa. Segnava indirizzo e numero di targa. Nei giorni successivi cercava
informazioni, si accertava di avere scelto il soggetto giusto. Poi contattava
il cliente da una cabina telefonica, e chiedeva mille euro in cambio delle
fotografie. Se li faceva lasciare nella cassetta della posta di una casa
abbandonata, sulla rotonda vicino al casello dell’autostrada.

Davide era un tipo meticoloso, lo dicevano sempre
anche la suore Ventricine, a scuola.. Faceva tutto con cura, e gli affari
andavano bene, molto bene. Ancora qualche serata di lavoro, poi avrebbe potuto
concedersi una vacanza.

In fondo, aveva sempre sognato di guadagnare
divertendosi.

Si sciacquò le mani nel lavandino, prese le chiavi
della Mini e uscì di casa.

Era la sera di Ferragosto, la Bassa era deserta e unta di
caldo afoso. Sulla Federica si aggiravano torme di automobilisti che avevano da
poco finito di scusarsi con i suoceri per non averli potuti raggiungere al
mare. Troppo lavoro.

Davide si godeva l’aria condizionata e guidava
lento, gustando la sensazione di potere che queste sue piccole scorrerie serali
gli regalavano. Gli facevano un po’ schifo, tutti quegli uomini grigi chiusi in
auto come scarafaggi nel loro guscio, smaniosi di agguantare la loro porzione di
carne sudaticcia.

Un poco si vergognava, perché sapeva che l’habitat
di quelle blatte innumerevoli era quello in cui lui stesso era nato e
cresciuto. Erano i suoi vicini di casa, i suoi ex animatori dell’oratorio, e
non faticava ad immaginare il ragionier Armando in una delle auto che
proseguivano lente sulla statale…Preferiva evitare di pensarci.

Fermò la
Mini nel parcheggio del ristorante Le mille Cascate. Spense i
fari. Prese in mano la macchina fotografica. E si dispose all’attesa.

 

 

Elia Maccarini aveva lavorato duro per tutta
l’estate. Anche quindici ore di fila in cantiere, da lunedì a sabato. La sera
prima non era nemmeno riuscito ad uscire, era crollato a letto senza cambiarsi.

Voleva rifarsi, passare una domenica speciale.

Si era svegliato alle cinque del pomeriggio, aveva
fatto colazione con una marlboro rossa e si era diretto verso il bar della
piazzetta. Lì aveva trovato i soliti clienti del pomeriggio intenti a giocare
ai videopoker, attaccati alle macchinette come vecchi enfisematosi alla bombola
dell’ossigeno. Lory la barista l’aveva salutato: “Ciao Ely, ti do il solito?”
Elia le aveva lanciato un’occhiata al testosterone, ma solo così, per darsi un
contegno. Aveva fatto colpo su di lei qualche mese prima, quando il bar aveva
subito un furto con spaccata: i ladri si erano portati via un  distributore di sigarette e un videopoker.

Il fatto aveva creato molto scalpore in paese,
tanto da suscitare un terremoto politico. La Lega Nordica aveva
affisso dei manifesti con slogan forti: “COSI’ NON SI PUO’ PIU’ ANDARE AVANTI”,
“LA GENTE E’
STANCA”, “FURTI SCIPPI E AGGRESSIONI OGNI GIORNO”. Per l’occasione avevano
anche rispolverato il “FUORI I CLANDESTINI” preelettorale.

La zia di Lory e proprietaria del bar, moglie di un
consigliere comunale Nordico, aveva molto gradito. Lory invece continuava a
sentirsi poco rassicurata, con tutti quei marocchini in giro per il paese. In
fondo, era lei a chiudere il bar la sera.

Elia aveva allora sfoderato il suo asso nella
manica. L’aveva avvicinata a fine serata, nella sua Peugeot 306 decappottabile
comparata in leasing, mentre abbassava la saracinesca.

 

Oddio Ely, mi hai fatto paura! Ma ti sembra il
caso
?”

 

Non ti spaventare, Lory. Volevo dirti che,
insomma, ci penso io adesso. Non è mica sicuro, una ragazza come te, mandare
aventi il bar quasi da sola..con tutte queste merde che girano in paese, hai
visto che adesso hanno aperto anche il kebab?”

 

“Si
guarda, non dirmelo neanche! Che poi voglio vedere come han fatto con la
licenza…No, ma c’è da aver paura davvero, qui, prima o poi ci scappa il morto!
Perché la gente è stufa. Ma tu cosa vuoi fare, da solo, Ely?”

 

E a quel punto Elia, trionfante, aveva sfoderato la
katana.

 

L’aveva comprata da un collega mezzo matto,
appassionato di giochi di ruolo dal vivo. Andava tutti gli anni in Germania con
altri fanatici in costume d’epoca, e si era fatto forgiare un’armatura completa
da un fabbro. Aveva speso un capitale, soprattutto per la katana, il suo
tesoro.

Poi aveva avuto un brutto infortunio, e aveva
cominciato a bere. Aveva cominciato anche ad avere un gran bisogno di soldi, e
con le lacrime agli occhi aveva accettato di vendere la sua katana ad Elia.

Il quale, in veste di giustiziere della notte,
aveva ottenuto immediatamente i favori della Lory. L’aveva portata un paio di
volte allo Sfizio, e poi nel boschetto dietro al cimitero, ma se n’era stancato
presto.

Le donne lo mettevano a disagio. La katana invece
no, lo faceva sentire forte, gli piaceva tenerla in auto, sotto il sedile del
passeggero. Era una compagna molto migliore della Lory.

 

Quella fatidica domenica sera, dunque, aveva
scambiato solo un paio di sguardi con la giovane barista, poi si era dedicato
alla ricerca del socio che doveva rifornirlo per la serata.

Cento euro gli erano usciti dalle tasche, e quasi subito
un pizzico di polvere sopraffina gli era entrata nel naso. Andava molto meglio,
la stanchezza si era dileguata all’istante. Con passo leggero era tornato al
bancone e aveva accettato il solito, ovvero tre campari, un pacchetto di
malboro e un cesto di pistacchi del periodo devoniano.

Si sentiva pronto per una delle sue seratine
speciali, che prevedevano un piccolo divertimento solitario prima della solita
sbronza allo Sfizio con la solita compagnia. 

 

Aveva buttato giù d’un fiato l’ultimo campari, era
passato da casa a farsi una doccia.

E ora guidava rilassato e gaio per le strade buie
del Quartiere Zingone.

 

William Dos Santos sapeva ormai distinguere con un
solo sguardo i clienti buoni da quelli che portavano grane. Quel giovane
muscoloso e abbronzato al volante della Peugeot decappottabile non gli piaceva.
Aveva tutta l’aria del maschio frustrato che cerca sempre di dimostrare la
propria virilità ed eterosessualità ortodossa, nonostante stia andando alla
ricerca di un trans. Inoltre, era vistosamente strafatto di cocaina.

William sperava proprio che il tarchiato non
scegliesse lui.

 

Eccolo,
voglio lui
,
pensò Elia. Quello lì alto mi piace, sembra quasi una donna vera. Sterzò
senza mettere la freccia ed entrò nella piazzola del distributore, accostandosi
a William.

Quanto vuoi, bella?” chiese. Il brasiliano
esitò nel rispondere.

Allora, cazzo, non posso stare qui tutta la
notte!”
. Era un momento delicato per Elia, temeva sempre che un collega o
un socio passassero di lì in cerca di donne e lo vedessero. Potevano
fraintendere, giudicarlo…Lui, insomma, non era uno di quelli. Si guardò attorno
nervosamente, e vide una lucina rossa.

Subito dopo, vide una sagoma su una Mini nera con
una macchina fotografica in mano.

 

Merda
merda merda  mi ha visto…
Davide era stato
imprudente,  troppo sicuro di sé. Per
prima cosa, non si era nascosto bene. Poi, aveva dato per scontato che sulla
bella auto nuova ci fosse il solito cinquantenne coniglio pieno di soldi.

Davide Santini, bocciato all’esame di sociologia.

Girò la chiave nel cruscotto, ma aveva reagito
troppo lentamente. Prima che potesse inserire la prima, si trovò scaraventato
fuori dalla Mini. Sopra di lui vide stagliarsi la figura di un uomo con una
spada giapponese tra le mani.

 

William aveva capito all’istante la situazione.
L’istinto, il buon senso, la volontà, qualsiasi facoltà della mente e ogni
fibra dei muscoli del suo corpo gli suggerivano di fuggire all’istante. Invece
non riuscì a farlo. Vide solo un poliziotto con un manganello in mano e una
persona a terra.

Spinse Elia alle spalle con tutto il peso del suo
corpo e gli afferrò i polsi trattenendo la katana. Il muratore muggì scrollando
il dorso come un toro ferito, cercando di liberarsi, mentre Davide mugolava a
terra incapace di muoversi. William non avrebbe potuto resistere a lungo, il
suo attimo di follia era già passato e si sentiva cedere la gambe.

 

Nicoleta, la diciottenne rumena che batteva la
piazzola del benzinaio con William, aveva reagito con la prontezza propria di
chi è abituato a pensare in fretta per sopravvivere. Appena aveva visto Elia
scagliarsi verso la Mini,
aveva estratto il cellulare.

Jari? Vieni subito, qui c’è gran casino, ci
ammazzano…si, solito posto, presto!”

 

William stava per cedere. Elia era furioso e non
avvertiva alcuna fatica. Riuscì a liberarsi le mani con uno strappo, e si girò
verso il brasiliano per colpirlo con la katana. William fece un rapido passo
indietro ed evitò il colpo.

In quel momento Davide afferrò le caviglie del
muratore, e le tirò verso di sé.

Elia cadde sulla propria spada, e si trafisse.
Rimase a terra, con la punta della katana che fuoriusciva tra le scapole. Dalla
bocca gli uscì un gorgoglio, insieme ad una schiuma rosata. Poi più nulla.

 

Davide e William si fissarono in silenzio per la
prima volta. Prima che potessero parlare, sentirono stridore di freni.

 Cosa
cazzo state facendo?
” Jari era arrivato. “Fanculo, questo è morto!

Su questo non c’erano dubbi. Jari batteva qualsiasi
medico sull’esperienza: Elia si era distrutto stomaco e cuore, e aveva smesso
di respirare.

Jari si mise a pensare. Un cadavere nella sua zona
di competenza era una brutta faccenda, significava settimane di inagibilità per
la piazza di prostituzione più redditizia della provincia. Un cadavere con una
spada infilata nel petto, poi! Giornalisti e politicanti avrebbero battuto la
pista per mesi. I Di Giovine non avrebbero gradito.

Doveva ripulire tutto. Far sparire auto, arma e
cadavere. Il trans e la ragazzina non erano un problema, li avrebbe spediti da
qualche parte. Vivi o morti, ci avrebbe pensato dopo. Il fighetto con la Mini, cosa cazzo ci faceva
lì?
lo avrebbe convinto a tacere.

Ora però dovevano muoversi, e in fretta.

Nicoleta, brava, hai fatto bene a chiamarmi.
Adesso vattene di qui, raggiungi Joana al parcheggio del centro commerciale.
Non dire niente.

A lei ci avrebbe pensato più tardi, con calma. Di
sicuro non sarebbe scappata, era senza documenti e con il terrore di chiunque
portasse una divisa.

Restavano i due campioni, i due giustizieri della
notte…

Voi
due coglioni-
si
rivolse a William e Davide- aiutatemi a caricare questo in macchina”.

Aveva deciso, lo avrebbe portato alla cava
dei Donati. Lì gli scavi erano fermi da tempo, non c’era più ghiaia da scavare,
ma nell’acqua profonda si corrodevano diversi quintali di rifiuti tossici. I
Donati erano degli animali, non avevano nemmeno voluto pagare il costo
irrisorio necessario per spedire i residuati della loro fabbrichetta di
incollaggio marmi in un’altra regione, come ormai facevano tutti.

I Di Giovine li avevano lasciati fare, ora
avrebbero riscosso il credito: un rifiuto in più sul fondo non avrebbe creato
problemi.

Quando sarebbe venuto il momento di trasformare la
cava in un bel laghetto artificiale con annessi ristorante, discoteca e
attrezzature per la pesca, del corpo sarebbe rimasto solo qualche osso spolpato
dalle carpe.

William e Davide sollevarono il cadavere e
cercarono di infilarlo nel bagagliaio della Peugeot, ma era troppo stretto e la
katana ne impediva la chiusura. “Toglietegli quella cosa, deficienti!”.
Nessuno dei due si mosse.

Jari li guardò con disprezzo, poi sfilò la spada
dal corpo di Elia, la mise accanto al cadavere e chiuse il bagagliaio.

Bene, ora ascoltatemi. Dovete guidare
fino
alla Federica, poi svoltate a sinistra. Seguite la strada fino al
semaforo, poi girate a destra. Vedrete una zona recintata, è una cava. C’è un
sentiero che porta all’ingresso, voi fermatevi lì.

Io
vi seguo con la mia macchina. Quando abbiamo finito, torneremo qui a riprendere
la Mini. Se
fate come dico io, domattina non ci pensate più. Tu, fighetto, prendi le
chiavi, ché questo negro non sa guidare”.

Davide sentiva la testa leggera leggera, e aveva
bisogno di vomitare. Ma voleva andarsene di lì al più presto, e continuava a
ripetersi “Domattina non ci pensate più…Non ci pensate più…

L’albanese era già sulla sua Mercedes, li
aspettava.

Salì sulla Peugeot, attese che anche William
salisse, e mise in moto. Partirono piano, immettendosi sulla statale Federica.

Senza
fretta…Senza fretta. Tra poco ci siamo.

 

“Minchia,
non c’è un cane in giro, sono andate in ferie pure le puttane…”

“Stai
calmo Marcello che qualcuno lo troviamo…almeno qualche marocchino senza
permesso di soggiorno, sta tranquillo che ce n’è!”

“Si
vabbè…Vale proprio la pena di fare la pattuglia a Ferragosto”.

Il turno di notte aveva anche i suoi vantaggi,
probabilmente, ma l’appuntato Paternò non era in vena di apprezzarli. Quegli
stronzi della Locale, con le auto nuove, le pistolette nuove e il manganello,
continuavano a farsi belli fermando ubriachi e clandestini rassegnati.
Ricevevano tutti gli elogi, venivano celebrati sul  gazzettino, specie da quando in comune c’era la Lega Nordica.

Ma il turno di notte, a Ferragosto, nel Quartiere
Zingone, lo lasciavano a loro. Ai carabinieri.

Quando Paternò si lasciava sfuggire queste
riflessioni, il maresciallo lo sfotteva: “E’ perché sei terrone! A te la Lega non è mai andata giù, ma
vedrai, adesso le cose andranno meglio anche per noi. Collaborazione, ci
vuole.”

“Dove
andiamo, Marcè?”
chiese
il carabiniere scelto Perrone.

Bella domanda. C’era la solita piazza di spaccio
dietro l’hotel abbandonato, certo, ma Paternò non era certo stupido. Non aveva
voglia di cercare grane. Meglio vedere se si trovava qualche arabo spiantato,
di quelli che tornavano in bicicletta dal giro dei bar.

Facciamoci la statale, va. Ci fermiamo lì,
dietro la fontana. I primi che passano li fermiamo
”.

 

Jari vide subito il posto di blocco. Era una
pattuglia sola. Fece un rapido calcolo: il brasiliano e il fighetto italiano
erano sacrificabili. Nessuno avrebbe potuto collegarli a lui o ai Di Giovine.
Il cadavere e la spada erano nella loro auto. Sparare a dei carabinieri avrebbe
sicuramente portato ancora più scompiglio sulla piazza. I due idioti
sicuramente non sarebbero riusciti a scappare.

Jari svoltò velocemente verso l’hotel abbandonato,
e scomparve.

 

Oddio cazzo i carabinieri…cosa facciamo?”

Davide stringeva terrorizzato il volante. William
non poteva sopportare l’idea di tornare in gabbia.

Vai dritto, vai, vai…Ci pensa Jari poi. Vai!

 

Ma porca…Questi tirano dritto!”

“Eh,
ho visto Perrò! Chiedi rinforzi.”

 
“Ma
che rinforzi, quelli si sono schiantati! Guarda!”

 

Un coniglio aveva attraversato lo stradone, proprio
davanti ai fari della Peugeot. Davide, ridotto ad un fascio di nervi, aveva
sterzato d’istinto. L’auto si era ribaltata nel profondo fossato che
costeggiava la statale.

Tentando di aprire la portiera, William vide due
carabinieri avvicinarsi, pistole alla mano.

Davide, prima di svenire, vide solo un coniglio
selvatico, che lo guardò per qualche istante e poi balzò via, beffardo.

This entry was posted in Racconti della Bassa. Bookmark the permalink.